Sunday, April 13, 2008

  
 


 

 
 


 

  
 


 

 
 


 

  
 


 

 
 


 

 Il porto


 

 
 


 

 H container dondolava mentre la gru lo spostava sulla nave. Come se stesse galleggiando nell'aria, lo sprider, il meccanismo che aggancia il container alla gru, non riusciva a domare il movimento. I portelloni mal chiusi si aprirono di scatto e iniziarono a piovere decine di corpi. Sembravano manichini. Ma a terra le teste si spaccavano come fossero crani veri. Ed erano crani. Uscivano dal container uomini e donne. Anche qualche ragazzo. Morti. Congelati, tutti raccolti, l'uno sull'altro. In fila, stipati come aringhe in scatola. Erano i cinesi che non muoiono mai. Gli eterni che si passano i documenti l'uno con l'altro. Ecco dove erano finiti. I corpi che le fantasie più spinte immaginavano cucinati nei ristoranti, sotterrati negli orti d'intorno alle fabbriche, gettati nella bocca del Vesuvio. Erano lì. Ne cadevano a decine dal container, con il nome appuntato su un cartellino annodato a un laccet-to intorno al collo. Avevano tutti messo da parte i soldi per farsi seppellire nelle loro città in Cina. Si facevano trattenere una percentuale dal salario, in cambio avevano garantito un viaggio di ritorno, una volta morti. Uno spazio in un container e un buco in qualche pezzo di terra cinese. Quando il gruista del porto mi raccontò la cosa, si mise le mani in faccia e continuava a guardarmi attraverso lo spazio tra le dita. Come se quella maschera di mani gli concedesse più coraggio per raccontare. Aveva visto cadere corpi e non aveva avuto bisogno neanche di lanciare l'allarme, di avvertire qualcuno. Aveva soltanto fatto toccare terra al container, e decine di persone comparse dal nulla avevano rimesso dentro tutti e con una pompa ripulito i resti. Era così che andavano le cose. Non riusciva ancora a crederci, sperava fosse un'allucinazione dovuta agli eccessivi straordinari. Chiuse le dita coprendosi completamente il volto e continuò a parlare piagnucolando, ma non riuscivo più a capirlo.


 

 
 


 

 Tutto quello che esiste passa di qui. Qui dal porto di Napoli. Non v'è manufatto, stoffa, pezzo di plastica, giocattolo, martello, scarpa, cacciavite, bullone, videogioco, giacca, pantalone, trapano, orologio che non passi per il porto. Il porto di Napoli è una ferita. Larga. Punto finale dei viaggi interminabili delle merci. Le navi arrivano, si immettono nel golfo avvicinandosi alla darsena come cuccioli a mammelle, solo che loro non devono succhiare, ma al contrario essere munte. Il porto di Napoli è il buco nel mappamondo da dove esce quello che si produce in Cina, Estremo Oriente come ancora i cronisti si divertono a definirlo. Estremo. Lontanissimo. Quasi inimmaginabile. Chiudendo gli occhi appaiono kimono, la barba di Marco Polo e un calcio a mezz'aria di Bruce Lee. In realtà quest'Oriente è allacciato al porto di Napoli come nessun altro luogo. Qui l'Oriente non ha nulla di estremo. Il vicinissimo Oriente, il minimo Oriente dovrebbe esser definito. Tutto quello che si produce in Cina viene sversato qui. Come un secchiello pieno d'acqua girato in una buca di sabbia che con il solo suo rovesciarsi erode ancor di più, allarga, scende in profondità. Il solo porto di Napoli movimenta il 20 per cento del valore dell'import tessile dalla Cina, ma oltre il 70 per cento della quantità del prodotto passa di qui. È una stranezza complicata da comprendere, però le merci portano con sé magie rare, riescono a essere non essendoci, ad arrivare pur non giungendo mai, a essere costose al cliente pur essendo scadenti, a risultare di poco valore al fisco pur essendo preziose. Il fatto è che il tessile ha parecchie categorie merceologiche, e basta un tratto di penna sulla bolletta d'accompagnamento per abbattere radicalmente i costi e l'rvA. Nel silenzio del buco nero del porto la struttura molecolare delle cose sembra scomporsi, per poi riaggregarsi una volta uscita dal perimetro della costa. La merce dal porto deve uscire subito. Tutto avviene talmente velocemente che mentre si sta svolgendo, scompare. Come se nulla fosse avvenuto, come se tutto fosse stato solo un gesto. Un viaggio inesistente, un approdo falso, una nave fantasma, un carico evanescente. Come se non ci fosse mai stato. Un'evaporazione. La merce deve arrivare nelle mani del compratore senza lasciare la bava del percorso, deve arrivare nel suo magazzino, subito, presto, prima che il tempo possa iniziare, il tempo che potrebbe consentire un controllo. Quintali di merce si muovono come fossero un pacco contrassegno che viene recapitato a mano dal postino a domicilio. Nel porto di Napoli, nei suoi 1.336.000 metri quadri per 11,5 chilometri, il tempo ha dilatazioni uniche. Ciò che fuori riuscirebbe a essere compiuto in un'ora, nel porto di Napoli sembra accadere in poco più d'un minuto. La lentezza proverbiale che nell'immaginario rende lentissimo ogni gesto di un napoletano qui è cassata, smentita, negata. La dogana attiva il proprio controllo in una dimensione temporale che le merci cinesi sforano. Spietatamente veloci. Qui ogni minuto sembra ammazzato. Una strage di minuti, un massacro di secondi rapiti dalle documentazioni, rincorsi dagli acceleratori dei camion, spinti dalle gru, accompagnati dai muletti che scompongono le interiora dei container.


 

 
 


 

 Nel porto di Napoli opera il più grande armatore di Stato cinese, la cosco, che possiede la terza flotta più grande al mondo e ha preso in gestione il più grande terminal per container, consorziandosi con la MSC, che possiede la seconda flotta più grande al mondo con sede a Ginevra. Svizzeri e cinesi si sono consorziati e a Napoli hanno deciso di investire la parte maggiore dei loro affari. Qui dispongono di oltre novecentocinquanta metri di banchina, centotrentamila metri quadri di terminal container e trentamila metri quadri esterni, assorbendo la quasi totalità del traffico in transito a Napoli. Bisogna rifondare la propria immaginazione per cercare di comprendere come l'immensità della produzione cinese possa poggiare sullo scalino del porto napoletano. L'immagine evangelica sembra appropriata, la cruna dell'ago somiglia al porto e il cammello che l'attraverserà sono le navi. Prue che si scontrano, file indiane di enormi bastimenti fuori dal golfo che aspettano la loro entrata tra confusione di poppe che beccheggiano, rumoreggiando con languori di ferri, lamiere e bulloni che lentamente entrano nel piccolo foro napoletano. Come un ano di mare che si allarga con grande dolore degli sfinteri.


 

 
 


 

 Eppure no. Non è così. Nessuna confusione apparente. Tutte le navi entrano ed escono con regolare ordine o almeno così sembra a osservare dalla terra ferma. Eppure centocinquantamila container transitano da qui. Intere città di merci si edificano sul porto per poi essere trasportate via. La qualità del porto è la velocità, ogni lentezza burocratica, ogni controllo meticoloso mutano il ghepardo del trasporto in un bradipo lento e pesante.


 

 
 


 

 Mi perdo sempre al molo. Il molo Bausan è identico alle costruzioni Lego. Una struttura immensa, ma che sembra non avere spazio, piuttosto pare inventarselo. C'è un angolo del molo che sembra un reticolo di vespai. Arnie bastarde che riempiono una parete. Sono migliaia di prese elettriche per l'alimentazione dei contenitori reefer, i container con i cibi surgelati e le code attaccate a questo vespaio. Tutti i sofficini e i bastoncini di pesce della terra sono stipati in quei contenitori ghiacciati. Quando vado al molo Bausan ho la sensazione di vedere da dove passano tutte le merci prodotte per l'umana specie. Dove trascorrono l'ultima notte prima di essere vendute. Come fissare l'origine del mondo. In poche ore transitano per il porto i vestiti che indosseranno i ragazzini parigini per un mese, i bastoncini di pesce che mangeranno a Brescia per un anno, gli orologi che copriranno i polsi dei catalani, la seta di tutti i vestiti inglesi d'una stagione. Sarebbe interessante poter leggere da qualche parte non soltanto dove la merce viene prodotta, ma persino che tragitto ha fatto per giungere nelle mani dell'acquirente. I prodotti hanno cittadinanze molteplici, ibride e bastarde. Nascono per metà nel centro della Cina, poi si completano in qualche periferia slava, si perfezionano nel nord est d'Italia, si confezionano in Puglia o a nord di Tirana, per poi finire in chissà quale magazzino d'Europa. La merce ha in sé tutti i diritti di spostamento che nessun essere umano potrà mai avere. Tutti i frammenti di strada, i percorsi accidentali e ufficiali trovano punto fermo a Napoli. Quando al molo attraccano le navi, gli enormi fullcontainers sembrano animali leggeri, ma appena entrano nel golfo lentamente, avvicinandosi al molo, divengono pesanti mammut di lamiere e catene con nei fianchi suture arrugginite che colano acqua. Navi su cui ti immagini vivano equipaggi numerosissimi, e invece scaricano manipoli di ometti che pensi incapaci di domare quei bestioni in pieno oceano.


 

 
 


 

 La prima volta che ho visto attraccare una nave cinese mi pareva di stare dinanzi a tutta la produzione del mondo. Gli occhi non riuscivano a contare, quantificare, il numero di container presenti. Non riuscivo a tenerne il conto. Può apparire impossibile non riuscire a procedere con i numeri, eppure il conto si perdeva, le cifre diventavano troppo elevate, si mescolavano.


 

 
 


 

 A Napoli ormai si scarica quasi esclusivamente merce proveniente dalla Cina, 1.600.000 tonnellate. Quella registrata. Almeno un altro milione passa senza lasciare traccia. Nel solo porto di Napoli, secondo l'Agenzia delle Dogane, il 60 per cento della merce sfugge al controllo della dogana, il 20 per cento delle bollette non viene controllato e vi sono cinquantamila contraffazioni: il 99 per cento è di provenienza cinese e si calcolano duecento milioni di euro di tasse evase a semestre. I container che devono scomparire prima di essere ispezionati si trovano nelle prime file. Ogni container è regolarmente numerato, ma ce ne sono molti con la stessa identica numerazione. Così un container ispezionato battezza tutti i suoi omonimi illegali. Quello che il lunedì si scarica, il giovedì può vendersi a Modena o Genova o finire nelle vetrine di Bonn e Monaco. Molta parte della merce che viene immessa nel mercato italiano avrebbe dovuto fare soltanto transito, ma le magie delle dogane permettono che il transito poi diventi fermo. La grammatica delle merci ha una sintassi per i documenti e un'altra per il commercio. Nell'aprile 2005, in quattro operazioni, scattate quasi per caso, a poca distanza le une dalle altre, il Servizio di Vigilanza Antifrode della Dogana aveva sequestrato ventiquattromila jeans destinati al mercato francese; cinquantunomila oggetti provenienti dal Bangladesh con il marchio made in Italy; e circa quattrocentocinquantamila personaggi, pupazzi, barbie, spiderman; più altri qua-rantaseimila giocattoli di plastica per un valore complessivo di circa trentasei milioni di euro. Una fettina d'economia, in una manciata di ore stava passando per il porto di Napoli. E dal porto al mondo. Non c'è ora o minuto in cui questo non accada. E le fettine di economia divengono lacerti, e poi quarti e interi manzi di commercio.


 

 
 


 

 Il porto è staccato dalla città. Un'appendice infetta mai degenerata in peritonite, sempre conservata nell'addome della costa. Ci sono parti desertiche rinchiuse tra l'acqua e la terra, ma che sembrano non appartenere né al mare né alla terra. Un anfibio di terra, una metamorfosi marina. Terriccio e spazzatura, anni di rimasugli portati a riva dalle maree hanno creato una nuova formazione. Le navi scaricano le loro latrine, puliscono stive lasciando colare la schiuma gialla in acqua, i motoscafi e i panfili spurgano motori e rassettano raccogliendo tutto nella pattumiera marina. E rutto si raccoglie sulla costa, prima come massa molliccia e poi crosta dura. Il sole accende il miraggio di mostrare un mare fatto d'acqua. In realtà la superficie del golfo somiglia alla lucentezza dei sacchetti della spazzatura. Quelli neri. E piuttosto che d'acqua, il mare del golfo sembra un'enorme vasca di percolato. La banchina con migliaia di container multicolori pare un limite invalicabile. Napoli è circoscritta da muraglie di merci. Mura che non difendono la città, ma al contrario la città difende le mura. Non ci sono eserciti di scaricatori, né romantiche plebaglie da porto. Ci si immagina il porto come luogo del fracasso, dell'andirivieni di uomini, di cicatrici e lingue impossibili, frenesia di genti. Invece impera un silenzio da fabbrica meccanizzata. Al porto non sembra esserci più nessuno, i container, le navi e i camion sembrano muoversi animati da un moto perpetuo. Una velocità senza chiasso.


 

 
 


 

 Al porto ci andavo per mangiare il pesce. Non è la vicinanza al mare che fa da garante di un buon ristorante, nel piatto ci trovavo le pietre pomici, sabbia, persino qualche alga bollita. Le vongole come le pescavano così le giravano nella pentola. Una garanzia di freschezza, una roulette russa d'infezione. Ma ormai tutti si sono rassegnati al sapore d'allevamento che rende simile un totano a un pollo. Per avere l'indefinibile sapore di mare bisognava in qualche modo rischiare. E questo rischio lo correvo volentieri. Mentre ero al ristorante del porto, chiesi informazioni per trovare un alloggio da affittare.


 

 
 


 

 "Non ne so niente, qui le case stanno sparendo. Se le stanno prendendo i cinesi..."


 

 
 


 

 Un tizio che troneggiava in mezzo alla stanza, grosso ma non abbastanza per la voce che aveva, invece lanciandomi un'occhiata urlò: "Forse qualcosa ancora c'è!".


 

 
 


 

 Non disse altro. Dopo aver entrambi finito di pranzare ci indirizzammo lungo la via che costeggia il porto. Non ci fu neanche bisogno che mi chiedesse di seguirlo. Arrivammo nell'atrio di un palazzo quasi fantasma, un condominio dormitorio. Salimmo al terzo piano dove c'era l'unica casa di studenti sopravvissuta. Stavano mandando via tutti per lasciare spazio al vuoto. Nelle case non doveva esserci più nulla. Né armadi, né letti, né quadri, né comodini, neanche pareti. Doveva esserci solo spazio, spazio per i pacchi, spazio per gli enormi armadi di cartone, spazio per le merci.


 

 
 


 

 In casa mi assegnarono una specie di stanza. Meglio definibile come uno stanzino con lo spazio appena necessario per un letto e un armadio. Non si parlò di mensile, di bollette da spartire, di connessioni e allacci telefonici. Mi presentarono a quattro ragazzi, miei coinquilini e tutto finì lì. Mi spiegarono che nel palazzo era l'unica casa realmente abitata e che serviva per dare alloggio a Xian, il cinese che controllava "i palazzi". Non dovevo pagare alcun fitto, ma mi chiesero di lavorare ogni fine settimana nelle case-magazzino. Ero andato per cercare una stanza, trovai un lavoro. Di mattina si abbattevano le pareti, la sera si raccoglievano i resti di cemento, parati e mattoni. Si cumulavano le macerie in normali sacchi d'immondizia. Buttare giù un muro genera rumori inaspettati. Non di sasso colpito ma come di cristalli gettati giù da un tavolo con una manata. Ogni casa diveniva un magazzino senza mura. Non so spiegarmi come il palazzo dove ho lavorato possa ancora stare in piedi. Più volte abbiamo abbattuto diversi muri maestri, consapevoli di farlo. Ma serviva lo spazio per la merce e non c'è equilibrio di cemento da conservare dinanzi alla conservazione dei prodotti.


 

 
 


 

 Il progetto di stipare i pacchi nelle case era nato nella mente di alcuni commercianti cinesi dopo che l'autorità portuale di Napoli aveva presentato a una delegazione del Congresso americano il piano sulla security. Quest'ultimo prevede una divisione del porto in quattro aree: crocieristica, del cabotaggio, delle merci e dei container e una individuazione, per ciascuna area, dei rischi. Dopo la pubblicazione di questo piano-security, per evitare che si potesse costringere la polizia a intervenire, i giornali a scriverne per troppo tempo, e persino qualche telecamera a intrufolarsi in cerca di qualche succosa scena, molti imprenditori cinesi decisero che tutto doveva essere sommerso da maggiore silenzio. Anche a causa di un innalzamento dei costi bisognava rendere ancor più impercettibile la presenza delle merci. Farla scomparire nei capannoni fittati nelle sperdute campagne della provincia, tra discariche e campi di tabacco: ma questo non eliminava il traffico di Tir. Così dal porto entravano e uscivano ogni giorno non più di dieci furgoncini, carichi di pacchi sino a esplodere. Dopo pochi metri si trovavano nei garage dei palazzi di fronte al porto. Entrare e uscire, bastava solo questo.


 

 
 


 

 Movimenti inesistenti, impercettibili, persi nelle manovre quotidiane del traffico. Case prese in fitto. Sfondate. Garage resi tutti comunicanti tra loro, cantine ricolme sino al tetto di merce. Nessun proprietario osava lamentarsi. Xian gli aveva pagato tutto. Fitto e indennizzo per gli abbattimenti impropri. Migliaia di pacchi salivano su un ascensore ristrutturato  come un montacarichi. Una gabbia d'acciaio ficcata dentro i  palazzi che faceva scorrere sui suoi binari una pedana che saliva e scendeva di continuo. Il lavoro era concentrato in poche ore. La scelta dei pacchi non era casuale. Mi capitò di scaricare ai primi di luglio. Un lavoro che rende bene ma che non puoi fare se non sotto costante allenamento. Il caldo era umidissimo. Nessuno osava chiedere un condizionatore.


 

 Nessuno. E non dipendeva da timori di punizione o da particolari culture d'obbedienza e sottomissione. Le persone che scaricavano provenivano da ogni angolo della terra. Ghanesi, ivoriani, cinesi, albanesi, e poi napoletani, calabresi, lucani. Nessuno chiedeva, tutti constatavano che le merci non soffrono il caldo e questa era condizione sufficiente per non spendere soldi in condizionatori.  


 

 Stipavamo pacchi con giubbotti, impermeabili, k-way, maglioncini di filo, ombrelli. Era piena estate, sembrava una scelta folle quella di rifornirsi di vestiti autunnali invece che accumulare costumi, prendisole e ciabatte. Sapevo che nelle case-deposito non si usava raccogliere i prodotti come in un magazzino, ma solo merce da immettere subito nel mercato. Ma gli imprenditori cinesi avevano previsto che ci sarebbe stato un agosto con poco sole. Non ho mai dimenticato la lezione di John Maynard Keynes sul concetto di valore marginale: come varia, per esempio, il prezzo di una bottiglia d'acqua in un deserto o della stessa bottiglia vicino a una cascata. Quell'estate, quindi, l'impresa italiana porgeva bottiglie vicino alle fonti, mentre l'imprenditoria cinese edificava sorgenti nel deserto.


 

 
 


 

 Dopo i primi giorni di lavoro nel palazzo, Xian venne a dormire da noi. Parlava un perfetto italiano, con una leggera r mutata in v. Come i nobili decaduti imitati da Totò nei suoi film. Xian Zhu era stato ribattezzato Nino. A Napoli, quasi tutti i cinesi che hanno relazione con gli indigeni si danno un nome partenopeo. È prassi così diffusa che non desta più stupore sentire un cinese che si presenta come Tonino, Nino, Pino, Pasquale. Xian Nino invece di dormire passò la notte al tavolo in cucina, telefonando e sbirciando la televisione. Ero sdraiato sul letto, ma dormire risultava impossibile. La voce di Xian non si interrompeva mai. La sua lingua veniva sparata fuori dai denti come una mitraglietta. Parlava senza neanche prendere respiro dalle narici, come in un'apnea di parole. E poi le flatulenze dei suoi guardaspalle che saturavano la casa di un odore dolciastro avevano appestato anche la mia stanza. Non era solo la puzza a disgustare, ma anche le immagini che quella puzza ti sprigionava in mente. Involtini primavera in putrefazione nei loro stomaci e riso alla cantonese macerato nei succhi gastrici. Gli altri inquilini erano abituati. Chiusa la porta non esisteva altro che il loro sonno. Per me invece non esisteva altro che quello che stava accadendo oltre la mia porta. Così mi piazzai in cucina. Spazio comune. E quindi anche in parte mio. O così avrebbe dovuto essere. Xian smise di parlare e iniziò a cucinare. Friggeva del pollo. Mi venivano in mente decine di domande da porgli, di curiosità, di luoghi comuni che volevo scrostare. Mi misi a parlare della Triade. La mafia cinese. Xian continuava a friggere. Volevo chiedergli dettagli. Anche soltanto simbolici, non pretendevo certo confessioni sulla sua affiliazione. Mostravo di conoscere i tratti generici del mondo mafioso cinese, con la presunzione che conoscere gli atti d'indagine fosse un modo maestro per possedere il calco della realtà. Xian portò il suo pollo fritto in tavola, prese posto e non disse nulla. Non so se ritenesse interessante quanto dicevo. Non so e non ho mai saputo se fosse parte di quell'organizzazione. Bevve della birra e poi alzò metà sedere dalla sedia, tirò il portafogli dalla tasca dei pantaloni, frugò con le dita senza guardare e poi cacciò tre monete. Le stese sul tavolo fermandole sulla tovaglia con un bicchiere rovesciato.


 

 
 


 

 "Euro, dollaro, yuan. Ecco la mia triade."


 

 
 


 

 Xian sembrava sincero. Nessun'altra ideologia, nessuna sorta di simbolo e passione gerarchica. Profitto, business, capitale. Null'altro. Si tende a considerare oscuro il potere che determina certe dinamiche e allora lo si ascrive a un'entità oscura: mafia cinese. Una sintesi che tende a scacciare tutti i termini intermedi, tutti i passaggi finanziari, tutte le qualità d'investimento, tutto ciò che fa la forza di un gruppo economico criminale. Da almeno cinque anni ogni relazione della Commissione Antimafia segnalava "il pericolo crescente della mafia cinese" ma in dieci anni di indagini la polizia aveva sequestrato vicino a Firenze, a Campi Bisenzio, appena seicentomila euro. Qualche moto e una porzione di fabbrica. Nulla, rispetto a una forza economica che riusciva a spostare capitali di centinaia di milioni di euro, secondo quanto scrivevano quotidianamente gli analisti americani. L'imprenditore mi sorrideva.


 

 
 


 

 "L'economia ha un sopra e un sotto. Noi siamo entrati sotto, e usciamo sopra." 


 

 Nino Xian prima di andare a dormire mi fece una proposta per l'indomani. "Ti alzi presto?"


 

 "Dipende..."


 

 "Se domani riesci a stare in piedi per le cinque, vieni con noi al porto. Ci dai una mano."


 

 "A fare che?"


 

 "Se hai una maglia col cappuccio, indossala, è meglio."


 

 
 


 

Non mi fu detto altro, né io tentai, troppo curioso di partecipare alla cosa, di insistere. Fare altre domande avrebbe potuto compromettere la proposta di Xian. Mi rimanevano poche ore per dormire. E l'ansia era troppa per riposare.


 

 Alle cinque in punto mi feci trovare pronto, nell'androne del palazzo ci raggiunsero altri ragazzi. Oltre me e un mio coinquilino, c'erano due maghrebini con i capelli brizzolati. Ci ficcammo nel furgoncino ed entrammo nel porto. Non so quanta strada avremo fatto e per quali anfratti d'angiporto ci siamo infilati. Mi addormentai poggiato al finestrino del furgone. Scendemmo vicino a degli scogli, un piccolo molo si estendeva nell'anfratto. Lì c'era attraccato uno scafo con un enorme motore che pareva una coda pesantissima rispetto alla struttura esile e allungata. Con i cappucci tirati su sembravamo tutti una ridicola band di cantanti rap. Il cappuccio che credevo fosse necessario per non farsi riconoscere invece serviva solo per proteggerti dagli schizzi di acqua gelida e per tentare di scongiurare l'emicrania che in mare aperto a primo mattino si inchioda tra le tempie. Un giovane napoletano accese il motore e un altro iniziò a guidare lo scafo. Sembravano fratelli. O almeno avevano visi identici. Xian non venne con noi. Dopo circa mezz'ora di viaggio ci avvicinammo a una nave. Pareva che ci andassimo a impattare contro. Enorme. Facevo fatica a tirare su il collo per vedere dove terminava la murata. In mare le navi lanciano delle grida di ferro, come l'urlo degli alberi quando vengono abbattuti, e dei suoni cupi di vuoto che ti fanno deglutire almeno due volte un muco al sapore di sale.


 

 
 


 

 Dalla nave una carrucola faceva calare a scatti una rete colma di scatoloni. Ogni volta che il fagotto sbatteva sui legni dell'imbarcazione, lo scafo beccheggiava al punto che mi preparavo già a galleggiare. Invece non finii in mare. Le scatole non erano pesantissime. Ma dopo averne sistemate a poppa una trentina, avevo i polsi indolenziti e gli avambracci rossi per il continuo sfregare con gli spigoli dei cartoni. Il motoscafo poi virò verso la costa, dietro di noi altri due scafi fiancheggiarono la nave per raccogliere altri pacchi. Non erano partiti dal nostro molo. Ma d'improvviso si erano accodati alla nostra scia. Sentivo la bocca dello stomaco ricevere schiaffi continui ogni qual volta lo scafo faceva battere la prua sul pelo dell'acqua. Poggiai la testa su alcune scatole. Tentavo di intuire dall'odore cosa contenessero, attaccai l'orecchio per cercare di capire dal rumore cosa ci fosse lì dentro. Iniziò a subentrare un senso di colpa. Chissà a cosa avevo partecipato, senza decisione, senza una vera scelta. Dannarmi sì, ma almeno con coscienza. Invece ero finito per curiosità a scaricare merce clandestina. Si crede stupidamente che un atto criminale per qualche ragione debba essere maggiormente pensato e voluto rispetto a un atto innocuo. In realtà non c'è differenza. I gesti conoscono un'elasticità che i giudizi etici ignorano. Arrivati al molo, i ma-ghrebini riuscivano a scendere dallo scafo con due scatolone sulle spalle. Per farmi barcollare mi bastavano solo le mie gambe. Sugli scogli ci aspettava Xian. Si avvicinò a un'enorme scatola, aveva già in mano una taglierina, solcò una fascia larghissima di scotch che chiudeva due ali di carta. Erano scarpe. Scarpe da ginnastica, originali, delle marche più celebri. Modelli nuovi, nuovissimi ancora non in circolazione nei negozi italiani. Temendo un controllo della Finanza, aveva preferito scaricare in mare aperto. Una parte della merce poteva così essere immessa senza la zavorra delle tasse, i grossisti le avrebbero prese senza le spese doganali. La concorrenza si vinceva sugli sconti. Stessa qualità di merce, ma quattro, sei, dieci per cento di sconto. Percentuali che nessun agente commerciale avrebbe potuto proporre e le percentuali di sconto fanno crescere o morire un negozio, permettono di aprire centri commerciali, di avere entrate sicure e con le entrate sicure le fideiussioni bancarie. I prezzi devono abbassarsi. Tutto deve arrivare, muoversi velocemente, di nascosto. Schiacciarsi sempre di più nella dimensione della vendita e dell'acquisto. Un ossigeno inaspettato per i commercianti italiani ed europei. Questo ossigeno entrava dal porto di Napoli.


 

 
 


 

 Stipammo tutti i pacchi in diversi furgoni. Arrivarono anche gli altri scafi. I furgoni andavano verso Roma, Viterbo, Latina, Formia. Xian ci fece riaccompagnare a casa.


 

 
 


 

 Tutto era cambiato negli ultimi anni. Tutto. D'improvviso. Repentinamente. Qualcuno intuisce il cambiamento, ma ancora non lo comprende. Il golfo fino a dieci anni fa era solcato da scafi di contrabbandieri, le mattine erano cariche di dettaglianti che si andavano a rifornire di sigarette. Strade affollate, macchine piene di stecche, angoli con sedia e banco per la vendita. Si giocavano le battaglie tra guardie costiere, finanzieri, e contrabbandieri. Si scambiavano quintali di sigarette in cambio di un arresto mancato, o ci si faceva arrestare per salvare quintali di sigarette stipate in qualche doppio fondo di scafo in fuga. Nottate, pali e fischi per avvertire strani movimenti di auto, walkie talkie accesi per segnalare allarmi, e file di uomini lungo la costa che si passavano velo-mente le scatole. Macchine che sfrecciavano dalla costa pugliese all'entroterra e dall'entroterra verso la Campania. Napoli-Brindisi era un asse fondamentale, la strada dell'economia florida delle sigarette a buon mercato. Il contrabbando, la FIAT del sud, il welfare dei senza Stato, ventimila persone che lavoravano esclusivamente nel contrabbando tra Puglia e Campania. Il contrabbando innescò la grande guerra di camorra dei primi anni '80.


 

 
 


 

 I clan pugliesi e campani reintroducevano in Europa le sigarette non più soggette ai Monopoli di Stato. Importavano migliaia di casse al mese dal Montenegro, fatturando cinquecento milioni di lire a carico. Ora tutto si è spaccato e trasformato. Ai clan non conviene più. Ma in realtà ha verità di dogma la massima di Lavoisier: niente si crea, niente si distrugge, tutto si trasforma. In natura, ma soprattutto nelle dinamiche del capitalismo. I prodotti del quotidiano, e non più il vizio della nicotina, sono il soggetto nuovo del contrabbando. Sta nascendo la guerra dei prezzi, terribilmente spietata. Le percentuali di sconto degli agenti, dei grossisti, e dei commercianti, determinano la vita e la morte di ognuno di questi soggetti economici. Ma non basta. La merce prodotta a basso costo dovrà essere venduta su un mercato dove sempre più persone accedono con stipendi precari, risparmi minimi, attenzione maniacale ai centesimi. L'invenduto aumenta e allora le merci, originali, false, semifalse, parzialmente vere, arrivano in silenzio. Senza lasciare traccia. Con meno visibilità delle sigarette, poiché non avranno una distribuzione parallela. Come se non fossero mai state trasportate, come se spuntassero dai campi e qualche mano anonima le avesse raccolte. Se il danaro non puzza la merce invece profuma. Ma non del mare attraversato, non riporta l'odore delle mani che l'hanno prodotta, né butta il grasso delle braccia meccaniche che l'hanno assemblata. La merce sa di quello che sa. Questo odore non ha origine che sul bancone del negoziante, non ha fine che nella casa dell'acquirente.


 

 
 


 

 Lasciandoci dietro il mare, arrivammo a casa. Il furgone ci diede appena il tempo di scendere. Poi tornò al porto a raccogliere, raccogliere, raccogliere ancora pacchi e merce. Salii ormai semisvenuto sull'ascensore-montacarichi. Mi tolsi la maglietta zuppa d'acqua e sudore prima di gettarmi sul letto. Non so quante scatole avevo sistemato e trasportato. Ma la sensazione era di aver scaricato le scarpe per i piedi di mezz'Italia. Ero stanco come fosse stata la fine di una giornata faticosa e pienissima. A casa, gli altri ragazzi si svegliavano. Era soltanto prima mattina.


 

 
 


 

 
 


 

 Angelina Jolie


 

 
 


 

 Nei giorni successivi accompagnai Xian nei suoi incontri d'affari. In realtà mi aveva scelto per fargli compagnia durante gli spostamenti e i pranzi. Parlavo troppo o troppo poco. Le due attitudini gli piacevano entrambe. Seguivo come si seminava e coltivava la semenza del danaro, come veniva messo a maggese il terreno dell'economia. Arrivammo a Las Vegas. A nord di Napoli. Qui chiamano Las Vegas questa zona per diverse ragioni. Come Las Vegas del Nevada è edificata in mezzo al deserto, così anche questi agglomerati sembrano spuntare dal nulla. Si arriva qui da un deserto di strade. Chilometri di catrame, di strade enormi che in pochi minuti ti portano fuori da questo territorio per spingerti sull'autostrada verso Roma, dritto verso il nord. Strade fatte non per auto ma per camion, non per spostare cittadini ma per trasportare vestiti, scarpe, borse. Venendo da Napoli questi paesi spuntano d'improvviso, ficcati nella terra uno accanto all'altro. Grumi di cemento. Le strade che si annodano ai lati di una retta su cui si avvicendano senza soluzione di continuità Casavatore, Caivano, Sant'Antimo, Melito, Arzano, Piscinola, San Pietro a Patierno, Frattamaggiore, Frattaminore, Grumo Nevano. Grovigli di strade. Paesi senza differenze che sembrano un'unica grande città. Strade che per metà sono un paese e per l'altra metà ne sono un altro.


 

 
 


 

 Avrò sentito centinaia di volte chiamare la zona del foggiano la Califoggia, oppure il sud della Calabria Calafrica o Calabria Saudita, o magari Sahara Consilina per Sala Consilina, Terzo Mondo per indicare una zona di Secondigliano. Ma qui Las Vegas è davvero Las Vegas. Qualsiasi persona avesse voluto tentare una scalata imprenditoriale, per anni avrebbe potuto farlo. Realizzare il sogno  proibito, una liquidazione, un forte risparmio per la sua fabbrica. Scarpe, vestiti, confezioni erano produzioni che si imponevano al buio sul mercato internazionale. Le città non si facevano fregio di questa produzione preziosa. I prodotti erano tanto più riusciti quanto assemblati in silenzio e clandestinamente. Territori che da decenni producevano i migliori capi della moda italiana. E quindi i migliori capi di moda del mondo. Non avevano club di imprenditori, non avevano centri di formazione, non avevano nulla che potesse essere altro dal lavoro, dalla macchina per cucire, dalla piccola fabbrica, dal pacco imballato, dalla merce spedita. Null'altro che un rimbalzare di queste fasi. Ogni altra cosa era superflua. La formazione la facevi al tavolo da lavoro, la qualità imprenditoriale la mostravi vincendo o perdendo. Niente finanziamenti, niente progetti, niente stage. Tutto e subito nell'arena del mercato. O vendi o perdi. Col crescere dei salari le case sono migliorate, le auto acquistate tra le più care. Tutto senza una ricchezza definibile collettiva. Una ricchezza saccheggiata, presa con fatica da qualcuno e portata nel proprio buco. Arrivavano da ogni parte per investire, indotti che producevano confezioni, camicie, gonne, giacche, giubbotti, guanti, cappelli, scarpe, borse, portafogli per aziende italiane, tedesche, francesi. In queste zone dagli anni '50 non v'era necessità di avere permessi, contratti, spazi. Garage, sottoscale, stanzini diventavano fabbriche. Negli ultimi anni la concorrenza cinese ha distrutto quelle che fabbricavano prodotti di qualità media. Non ha più dato spazio di crescita alla manualità degli operai. O lavori nel migliore dei modi subito o qualcuno saprà lavorare a un livello medio in maniera più veloce. Un numero elevato di persone si sono trovate senza lavoro. I proprietari delle fabbriche sono finiti stritolati dai debiti, dall'usura. Molti si sono dati alla latitanza.


 

 
 


 

 C'è un luogo che con la fine di questi indotti di bassa qualità ha esaurito il respiro, la crescita, la sopravvivenza. Della fine della periferia sembra l'emblema. Con le case sempre illuminate e piene di gente, con i cortili affollati. Le macchine sempre parcheggiate. Nessuno che esce mai di là. Qualcuno che entra. Pochi che si fermano. In nessun momento della giornata ci sono i vuoti condominiali, quelli che si sentono al mattino quando tutti vanno al lavoro o a scuola. Qui invece c'è sempre folla, un rumore continuo di abitato. Parco Verde a Caivano.


 

 
 


 

 Parco Verde spunta appena si esce dall'asse mediano, una lama di catrame che taglia di netto tutti i paesi del napoletano. Sembra, piuttosto che un quartiere, una paccottiglia di cemento, verande di alluminio che si gonfiano come bubboni su ogni balcone. Sembra uno di quei posti che l'architetto ha progettato ispirandosi alle costruzioni sulla spiaggia, come se avesse pensato quei palazzi come le torri di sabbia che vengono fuori rovesciando il secchiello. Palazzi essenziali, bigi. Qui c'è in un angolo una cappelletta minuscola. Quasi impercettibile. Non era però sempre stata così. Prima c'era una cappella. Grande, bianca. Un vero e proprio mausoleo dedicato a un ragazzo, Emanuele, morto sul lavoro. Un lavoro che in certe zone è persino peggio del lavoro nero in fabbrica. Ma è un mestiere. Emanuele faceva rapine. E le faceva sempre di sabato, tutti i sabato, da un po' di tempo. E sempre sulla stessa strada. Stessa ora, stessa strada, stesso giorno. Perché il sabato era il giorno delle sue vittime. Il giorno delle coppiette. E la Statale 87 era il luogo dove tutte le coppie della zona si appartano. Una strada di merda, tra catrame rattoppato e microdiscariche. Ogni volta che ci passo e vedo le coppiette penso che sia necessario dare fondo a tutta la propria passione per riuscire a star bene in mezzo a tanto schifo. Proprio qui Emanuele e due suoi amici si nascondevano, attendevano l'auto della coppia che parcheggiava, la luce che si spegneva. Aspettavano qualche minuto dopo che la luce s'era spenta per farli svestire, e nel momento di massima vulnerabilità arrivavano. Con il calcio della pistola rompevano il finestrino e poi la puntavano sotto il naso del ragazzo. Ripulivano le coppiette e se ne andavano nei weekend con decine di rapine fatte e cinquecento euro in tasca: un bottino minuscolo che può avere il sapore del tesoro.


 

 
 


 

 Capita però che una notte una pattuglia di carabinieri li intercetti. Sono così imbecilli, Emanuele e i suoi compari, che non prevedono che fare sempre le stesse mosse e rapinare sempre nelle stesse zone è il miglior modo per essere arrestati. Le due auto si inseguono, si speronano, partono gli spari.


 

 Poi tutto si ferma. In auto c'è Emanuele, colpito a morte. Aveva in mano una pistola, e aveva fatto il gesto di puntarla contro i carabinieri. Lo ammazzarono con undici colpi sparati in pochi secondi.


 

I suoi amici avevano tentato di aprire gli sportelli, ma appena avevano capito che Emanuele era morto si erano fermati. Avevano aperto le portiere senza fare resistenza ai pugni in faccia che precedono ogni arresto. Emanuele era incartocciato su se stesso, aveva in mano una pistola finta. Una di quelle riproduzioni che una volta chiamavano scacciacani, usate in campagna per cacciare i branchi di randagi dai pollai. Un giocattolo che veniva usato come fosse vero; del resto Emanuele era un ragazzino che agiva come fosse un uomo maturo, sguardo spaventato che fingeva d'essere spietato, la voglia di qualche spicciolo che fingeva essere brama di ricchezza. Emanuele aveva quindici anni. Tutti lo chiamavano semplicemente Manu. Aveva una faccia asciutta, scura e spigolosa, uno di quelli che ti immagini come archetipo di ragazzino da non frequentare. Emanuele era un ragazzo su questo angolo di territorio dove onore e rispetto non ti sono dati da pochi spiccioli, ma da come li ottieni. Emanuele era parte di Parco Verde. E non c'è errore o crimine che possa cancellare la priorità dell'appartenenza a certi luoghi che ti marchiano a fuoco. Avevano fatto una colletta tutte le famiglie di Parco Verde. E avevano tirato su un piccolo mausoleo. Dentro ci avevano messo una fotografia della Madonna dell'Arco e una cornice con il volto sorridente di Manu. Comparve anche la cappella di Emanuele, tra le oltre venti che i fedeli avevano edificato a tutte le madonne possibili, una per ogni anno di disoccupazione. Il sindaco però non poteva sopportare che si edificasse un altare a un mariuo-lo, e mandò una ruspa ad abbatterlo. In un attimo il cemento tirato su si sbriciolò come un lavoretto di Das. In pochi minuti si sparse la voce nel Parco, i ragazzi arrivarono con motorini e moto vicino alle ruspe. Nessuno pronunciava parola. Ma tutti fissavano l'operaio che stava muovendo le leve. Con il carico di sguardi l'operaio si fermò, e fece cenno di guardare il maresciallo. Era lui che gli aveva dato l'ordine. Come un gesto per mostrare l'obiettivo della rabbia, per togliere il bersaglio dal suo petto. Era impaurito. Si chiuse dentro. Assediato. In un attimo iniziò la guerriglia. L'operaio riuscì a scappare nella macchina della polizia. Presero a pugni e calci la ruspa, svuotarono le bottiglie di birra e le riempirono con la benzina. Inclinarono i motorini facendo colare il carburante nelle bottiglie direttamente dai serbatoi. E presero a sassate i vetri di una scuola, vicino al Parco. Cade la cappella di Emanuele, deve cadere tutto il resto. Dai palazzi lanciavano piatti, vasi, posate. Poi le bottiglie incendiarie contro la polizia. Misero in fila i cassonetti come barricate. Diedero fuoco a tutto quanto potesse prenderlo e diffonderlo. Si prepararono alla guerriglia. Erano centinaia, potevano resistere a lungo. La rivolta si stava diffondendo, stava arrivando nei quartieri napoletani.


 

 Ma poi giunse qualcuno, da non troppo lontano. Tutto era circondato da auto della polizia e dei carabinieri, ma un fuoristrada nero riuscì a superare le barricate. L'autista fece un cenno, qualcuno aprì la portiera e un gruppetto di rivoltosi entrò. In poco più di due ore tutto venne smantellato. Si tolsero i fazzoletti dalla faccia, lasciarono spegnere le barricate  di spazzatura. I clan erano intervenuti, ma chissà quale. Parco Verde è una miniera per la manovalanza camorristica.


 

 Qui tutti quelli che vogliono raccolgono le leve più basse, la manovalanza da pagare persino meno dei pusher nigeriani o albanesi. Tutti cercano i ragazzi di Parco Verde: i Casalesi, i Maliardo di Giugliano, i "tigrotti" di Crispano. Divengono spacciatori con stipendi senza percentuali sulle vendite. E poi autisti e pali, a presidiare territori anche a chilometri di distanza da casa loro. E pur di lavorare non chiedono il rimborso della benzina. Ragazzi fidati, scrupolosi nel loro mestiere. A volte finiscono nell'eroina. La droga dei miserabili.


 

 Qualcuno si salva, si arruola, entra nell'esercito e va lontano, qualche ragazza riesce ad andare via per non mettere più piede in questi luoghi. Quasi nessuno delle nuove generazioni viene affiliato. La parte maggiore lavora per i clan, ma non saranno mai camorristi. I clan non li vogliono, non li affiliano, li fanno lavorare sfruttando questa grande offerta.


 

Non hanno competenze, talento commerciale, fanno i corrieri. Portano zaini pieni di hashish.


 

Lo sentono un guadagno ozioso, ineguagliabile quasi, certamente irraggiungibile con qualsiasi altro mestiere rintracciabile in questo luogo. Ma hanno trasportato merce capace di fatturare dieci volte il costo della moto. Non lo sanno e non riescono a immaginarlo. Se un posto di blocco li intercetta subiranno condanne sotto i dieci anni, e non essendo affiliati non avranno le spese legali pagate né l'assistenza fa miliare garantita dai clan. Ma in testa c'è il rombo dello scappamento e Roma da raggiungere.       


 

 
 


 

Qualche barricata continuò ancora a sfogarsi ma lentamente, a seconda della quantità di rabbia nella pancia. Poi tutto sfiatò. I clan non avevano timore della rivolta, né del clamore. Potevano uccidersi e bruciare per giorni, nulla sarebbe accaduto. Ma la rivolta non li avrebbe fatti lavorare. Non avrebbe fatto di Parco Verde il serbatoio d'emergenza da cui attingere sempre manovalanza a prezzo bassissimo. Tutto, e subito, doveva rientrare. Tutti dovevano tornare al lavoro, o meglio, disponibili al lavoro eventuale. Il gioco della rivolta doveva finire.


 

 
 


 

 Al funerale di Emanuele c'ero stato. Quindici anni in certi meridiani di mondo sono solo una somma. Crepare a quindici anni in questa periferia sembra scontare una condanna a morte piuttosto che essere privati della vita. In chiesa c'erano molti, moltissimi ragazzi tutti scuri in volto, ogni tanto lanciavano qualche urlo e addirittura un coretto ritmato fuori dalla chiesa: "Sem-pre con noi, rim-arrai sem-pre con noi... sempre con noi...". Gli ultra lo scandiscono solitamente quando qualche vecchia gloria abbandona la maglia. Sembravano allo stadio, ma c'erano solo cori di rabbia. C'erano poliziotti in borghese che cercavano di stare lontano dalle navate. Tutti li avevano riconosciuti, ma non c'era spazio per scaramucce. In chiesa riuscii subito a individuarli; o meglio loro individuarono me, non trovando sul mio viso traccia del loro archivio mentale. Come per venire incontro alla mia cupezza uno di questi mi si avvicinò dicendomi: "Questi qua sono tutti pregiudicati. Spaccio, furto, ricettazione, rapina... qualcuno fa pure le marchette. Non c'è nessuno pulito. Qua più ne muoiono, meglio è per tutti...".


 

 
 


 

 Parole a cui si risponde con un gancio, o una testata sul setto nasale. Ma era in realtà il pensiero di tutti. E forse persino un pensiero saggio. Quei ragazzi che si faranno l'ergastolo per una rapina da 200 euro -feccia, surrogati d'uomini, spacciatori - li guardavo, uno per uno. Nessuno di loro superava i vent'anni. Padre Mauro, il parroco che celebrava la funzione, sapeva chi aveva di fronte. Sapeva anche che i ragazzini che gli stavano intorno non avevano il timbro dell'innocenza.


 

 
 


 

 "Oggi non è morto un eroe..."


 

 
 


 

 Non aveva le mani aperte, come i preti quando leggono le parabole alla domenica. Aveva i pugni chiusi. Assente qualsiasi tono d'omelia. Quando iniziò a parlare la sua voce era rovinata da una raucedine strana, come quella che viene quando ti parli dentro per troppo tempo. Parlava con un tono rabbioso, nessuna pena molle per la creatura, non delegava niente.


 

 
 


 

 Sembrava uno di quei preti sudamericani durante i moti di guerriglia in Salvador, quando non ne potevano più di celebrare funerali di massacri e smettevano di compatire, e iniziavano a urlare. Ma qui Romero nessuno lo conosce. Padre Mauro ha un'energia rara. "Per quante responsabilità possiamo attribuire a Emanuele, restano i suoi quindici anni. I figli delle famiglie che nascono in altri luoghi d'Italia a quell'età vanno in piscina, a fare scuola di ballo. Qui non è così. Il Padreterno terrà conto del fatto che l'errore è stato commesso da un ragazzo di quindici anni. Se quindici anni nel sud Italia sono abbastanza per lavorare, decidere di rapinare, uccidere ed essere uccisi, sono anche abbastanza per prendere responsabilità di tali cose".


 

 
 


 

 Poi tirò forte col naso l'aria viziata della chiesa: "Ma quindici anni sono così pochi che ci fanno vedere meglio cosa c'è dietro, e ci obbligano a distribuire la responsabilità. Quindici anni è un'età che bussa alla coscienza di chi ciancia di legalità, lavoro, impegno. Non bussa con le nocche, ma con le unghie".


 

 
 


 

 Il parroco finì l'omelia. Nessuno capì fino in fondo cosa voleva dire, né c'erano autorità o istituzioni. Il trambusto dei ragazzi divenne enorme. La bara uscì dalla chiesa, quattro uomini la sorreggevano ma d'improvviso smise di poggiare sulle loro spalle e iniziò a galleggiare sulla folla. Tutti la mantenevano con il palmo delle mani, come si fa con le rock-star quando si catapultano dal palco sugli spettatori. Il fere tro ondeggiava nel lago di dita. Un corteo di ragazzi in moto si schierò vicino alla macchina, la macchina lunga dei morti, pronta a trasportare Manu al cimitero. Acceleravano. Col freno premuto. Il rombo dei motori fece da coro all'ultimo percorso di Emanuele. Sgommando, lasciando ululare le marmitte. Sembrava volessero scortarlo con quelle moto sino alle porte dell'oltretomba. In poco tempo un fumo denso e un puzzo di benzina riempì ogni cosa e impregnò i vestiti. Tentai di entrare in sacrestia. Volevo parlare a quel prete che aveva avuto parole roventi. Mi anticipò una donna. Voleva dirgli che in fondo il ragazzo se l'era cercata, che la famiglia non gli aveva insegnato nulla. Poi, orgogliosa, confessò: "I miei nipoti anche se disoccupati non avrebbero mai fatto ra


 

pine...".   E continuando nervosa: "Ma cosa aveva imparato questo ragazzo? Niente?"


 

 Il prete guardò per terra. Era in tuta. Non tentò di rispondere, non la guardò neanche in viso e continuando a fissarsi le scarpe da ginnastica bisbigliò: "Il fatto è che qui si impara solo a morire".


 

 
 


 

 "Cosa padre?"


 

 
 


 

 "Niente signora, niente."


 

 
 


 

 Ma non tutti qui sono sotto terra. Non tutti sono finiti nel pantano della sconfitta. Per ora. Esistono ancora fabbriche vincenti. La forza di queste imprese è tale che riescono a far fronte al mercato della manodopera cinese perché lavorano sulle grandi griffe. Velocità e qualità. Altissima qualità. Il monopolio della bellezza dei capi d'eccellenza è ancora loro. Il made in Italy si costruisce qui. Caivano, Sant'Antimo, Arza-no, e via via tutta la Las Vegas campana. "Il volto dell'Italia nel mondo" ha i lineamenti di stoffa adagiati sul cranio nudo della provincia napoletana. Le griffe non si fidano a mandare tutto a est, ad appaltare in Oriente. Le fabbriche si ammonticchiano nei sottoscala, al piano terra delle villette a schiera. Nei capannoni alla periferia di questi paesi di periferia. Si lavora cucendo, tagliando pelle, assemblando scarpe. In fila. La schiena del collega davanti agli occhi e la propria dinanzi agli occhi di chi ti è dietro. Un operaio del settore tessile lavora circa dieci ore al giorno. Gli stipendi variano da cinquecento a novecento euro. Gli straordinari sono spesso pagati bene. Anche quindici euro in più rispetto al normale valore di un'ora di lavoro. Raramente le aziende superano i dieci dipendenti. Nelle stanze dove si lavora campeggia su una mensola una radio o una televisione. La radio si ascolta per la musica e al massimo qualcuno canticchia. Ma nei momenti di massima produzione tutto tace e battono soltanto gli aghi. Più della metà dei dipendenti di queste aziende sono donne. Abili, nate dinanzi alle macchine per cucire. Qui le fabbriche formalmente non esistono e non esistono nemmeno i lavoratori. Se lo stesso lavoro di alta qualità fosse inquadrato, i prezzi lieviterebbero e non ci sarebbe più mercato, e il lavoro volerebbe via dall'Italia. Gli imprenditori di queste parti conoscono a memoria questa logica. In queste fabbriche spesso non c'è astio tra operai e proprietari. Qui il conflitto di classe è molle come un biscotto spugnato. Il padrone spesso è un ex operaio, condivide le ore di lavoro dei suoi dipendenti, nella stessa stanza, sullo stesso scranno. Quando sbaglia paga direttamente con ipoteche e prestiti. La sua autorità è paternalistica. Si litiga per un giorno di ferie e per qualche centesimo di aumento. Non c'è contratto, non c'è burocrazia. Volto contro volto. E si tracciano così gli spazi delle concessioni e degli obblighi che hanno il sapore dei diritti e delle competenze. La famiglia dell'imprenditore vive al piano di sopra dove si lavora. In queste fabbriche spesso le operaie affidano i loro bambini alle figlie del proprietario che diventano babysitter o alle madri che si trasformano in nonne vicarie. I bambini delle operaie crescono con le famiglie dei proprietari. Tutto questo crea una vita comune, realizza il sogno orizzontale del postfordismo - far condividere il pranzo a operai e dirigenti, farli frequentare nella vita privata, farli sentire parte di una stessa comunità.


 

 
 


 

 In queste fabbriche non ci sono sguardi che fissano il terreno. Sanno di lavorare sull'eccellenza, e sanno di avere stipendi infimi. Ma senza l'uno non c'è l'altro. Si lavora per prendere ciò di cui hai bisogno, nel miglior modo possibile, così nessuno troverà motivo per cacciarti. Non c'è rete di protezione. Diritti, giuste cause, permessi, ferie. Il diritto te lo costruisci. Le ferie le implori. Non c'è da lagnarsi. Tutto accade come deve accadere. Qui c'è solo un corpo, un'abilità, una macchina e uno stipendio. Non si conoscono dati precisi su quanti siano i lavoratori in nero di queste zone. Né quanti invece siano regolarizzati, ma costretti ogni mese a firmare buste paga che indicano somme mai percepite.


 

 
 


 

 Xian doveva partecipare a un'asta. Entrammo nell'aula di una scuola elementare, nessun bambino, nessuna maestra. Solo i fogli bristol attaccati alle pareti con enormi letterone disegnate. In aula aspettavano una ventina di persone che rappresentavano le loro aziende, Xian era l'unico straniero. Salutò soltanto due dei presenti e senza neanche troppa confidenza. Un'auto si fermò nel cortile della scuola. Entrarono tre persone. Due uomini e una donna. La donna aveva una gonna di pelle, tacchi alti,

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